TRATTAMENTO DELLA SCHIZOFRENIA: QUALE MIGLIORE APPROCCIO?
L’approccio al paziente affetto da schizofrenia, implica un trattamento che prevede tre principali fasi: prima la gestione di una situazione acuta, poi la delicata fase di stabilizzazione ed infine il mantenimento, considerando che questo tipo di trattamento è un percorso che accompagna il paziente per tutta la sua vita, o comunque per molti anni.
Storia e destino dei pazienti affetti da schizofrenia
Il tasso di remissioni è molto più alto nei pazienti aderenti al trattamento, e più bassa nei pazienti meno complianti i quali, molto spesso, ricadono
Le ricadute sono uno degli aspetti più importanti della malattia e la mancata aderenza una delle cause principali di tali eventi. Le ricadute e i nuovi episodi psicotici sono associati ad un deterioramento sistematico, che incide anche sul funzionamento.
Evitare le ricadute rappresenta il paradigma di intervento dello psichiatra verso la remissione e il recupero del paziente. Il comportamento dello psichiatra non deve essere diverso da quello del cardiologo: così come dopo un infarto l’obiettivo di trattamento è eliminare il rischio di averne un secondo che potrebbe portare alla morte del paziente, con la stessa modalità l'approccio ad un trattamento per un paziente con schizofrenia dovrebbe prevedere l’assenza di ricadute. Evitare le ricadute allontana il rischio che si verifichi un irreversibile deterioramento cerebrale (danni alla sostanza bianca e grigia, compromissione della connettività cerebrale e della neuroplasticità).
Obiettivi terapeutici nella schizofrenia
Il trattamento della schizofrenia ha a disposizione un armamentario piuttosto ricco. Lo psichiatra deve servirsi di molecole che possano gestire qui e ora i sintomi psicotici più gravi e che abbiano un’efficacia nel lungo termine, a partire dalla fase di stabilizzazione, dove viene discusso e deciso il trattamento che accompagnerà il paziente per tutta la vita
La fase iniziale del trattamento è la più delicata, dal momento che dopo essere uscito dal setting ospedaliero, il paziente corre il rischio di interrompere la terapia assegnata a causa di una probabile mancata continuità assistenziale (la letteratura suggerisce la possibile comparsa di mancata aderenza dopo periodo medio di 60 giorni dopo la dimissione), e quindi di avere ricadute.
Curare questi pazienti significa gestire le acuzie, garantire un buon funzionamento nel lungo termine oltre che migliorare le funzionalità cognitive che sono un altro aspetto importante legato alla patologia, cercando di raggiungere un buon livello di qualità di vita
La risposta ai farmaci antipsicotici segue tre fasi: il controllo comportamentale, la risposta antipsicotica e la risposta "anti-deficit"
I farmaci antipsicotici di ultima generazione permettono di stabilire quale effetto aspettarsi nell’immediato, dopo due ore o un mese dall’assunzione del farmaco, oltre che nel lungo termine. Una stessa molecola, in momenti diversi, può aiutare a gestire un’acuzie, dopo un mese lasciare lo spazio alla risposta antipsicotica, per poi sostenere l’effetto nel lungo periodo, auspicando la possibilità di una risposta anti-deficit.
Il paziente in regime di ricovero è un paziente che necessita di un intervento in acuto, il trattamento farmacologico prevede rapidità di azione escludendo eventuali esperienze negative, in modo da favorire l’aderenza.
Alti dosaggi di potenti bloccanti D2, sono in grado di indurre una sedazione che, in realtà, corrisponde all’inibizione del meccanismo di reward. Questo trattamento ha il vantaggio - in acuto - di eliminare i sintomi positivi ma in pochi giorni fa entrare il paziente in un “buco nero” dovuto al blocco del sistema dopaminergico, senza il quale gli esseri umani non riuscirebbero a vivere. Una terapia che comprende anche la sedazione va considerata quando il paziente mostra ideazioni suicidarie, rappresenta un pericolo per sé stesso e/o per gli altri, delira, è disorganizzato ed imprevedibile, alterna sintomi maniacali a sintomi depressivi, ha un tono dell'umore elevato, dorme poco, è agitato ed irritabile e mostra un comportamento distruttivo o aggressivo.
Adoperare farmaci antipsicotici di vecchia generazione a dosaggi molto elevati, come è avvenuto per anni e forse in alcuni casi ancora rappresenta la terapia di gestione delle acuzie, espone il paziente ad esperienze molto dure, inficiando l’outcome del trattamento stesso
Cosa offrono le attuali terapie antipsicotiche?
Oggi, per gestire i pazienti in acuto, abbiamo a disposizione gli antipsicotici tradizionali, le benzodiazepine e gli antipsicotici atipici. Un trattamento terapeutico per un paziente con psicosi dovrebbe poter garantire predicibilità su cosa avverrà nel breve, medio e lungo periodo, calcolando che la gestione del paziente è fatta a più mani, "la presenza di una molecola efficace nell’acuto, che può essere sostituita da una terapia orale dopo riduzione dell’acuzie e poi, eventualmente, da una formulazione long-acting rappresenta una possibilità per il medico di porsi di fronte al paziente con un progetto già definito”.
Gli antipsicotici tipici sono efficaci e molto conosciuti. Di contro, questi farmaci portano a sedazione eccessiva, ipotensione, EPS acuti, aritmie cardiache e prolungamento del tratto QTc che richiedono ECG di base prima di iniziare il trattamento e, quindi, risultano di difficile gestione, soprattutto nell’acuzie.
Rapida efficacia e grande esperienza sono anche i due vantaggi nel trattamento con benzodiazepine. Purtroppo, però, questi farmaci possono dare depressione respiratoria.
Miglioramento degli outcomes del paziente grazie alle terapie LAI
Sfruttando un’onda proveniente da oltre oceano e dal nord Europa, un gruppo di psichiatri italiani ha presentato un modello di management del paziente affetto da schizofrenia che prevede l’utilizzo degli antipsicotici atipici iniettabili a rilascio prolungato (LAI) nel controllo della crisi, mantenimento, ricaduta, prevenzione e recupero della malattia1.
Con il 100% dell'aderenza, la maggior parte dei pazienti affetti da schizofrenia, non solo non vanno incontro a ricadute, ma potrebbero andare incontro ad una remissione e ad una vera e propria recovery
Gli antipsicotici di seconda generazione probabilmente non causano deterioramento cerebrale ed è consigliabile un impiego dei LAI per il miglioramento della gestione del paziente affetto da schizofrenia a partire già dal primo episodio (FELP, First Episode of Long Psychosis). Come in America si parla dei “terrible two” indicando i primi due anni di vita dei bambini in cui la curiosità li espone ai primi rischi, così nella schizofrenia i due anni successivi all’episodio indice sono quelli che determinano il destino di un paziente. Un intervento terapeutico rigoroso, anche con i farmaci LAI, dopo il FELP mette il paziente al riparo dalle continue ricadute che rappresentano il motivo principale del deterioramento cerebrale.
Nell’arco di un quadriennio - dal 2012 al 2016 - nella LAI clinic dove ha preso atto il modello di management del paziente, sono state effettuate oltre 3000 somministrazioni (iniettabili) per il trattamento di 154 pazienti affetti da schizofrenia. In questa progettualità uno studio mirror ha valutato la storia dei pazienti con schizofrenia per un periodo di 2 anni a cavallo dell’inserimento della terapia con i LAI. Dopo un anno dall’inizio della nuova terapia, tutti i pazienti hanno mostrato una quasi totale aderenza alle terapie e riduzione delle ospedalizzazioni sia rispetto alla loro storia di malattia, che rispetto all'anno che ha preceduto l'introduzione del LAI (p<0.001). Il funzionamento globale, misurato in un sottogruppo di pazienti con la scala Global Assessment of Functioning (GAF) somministrata prima e dopo l'introduzione di un LAI, è aumentato nel tempo (p<0.001).